Il licenziamento del dipendente e la riorganizzazione dell’azienda durante l’emergenza sanitaria Covid-19
Le aziende in questa fase critica stanno chiedendo sempre più spesso consulenze specifiche per la riorganizzazione e per la gestione degli esuberi dei lavoratori.
Dopo un primo periodo in cui le richieste erano connesse alla questione della responsabilità del datore di lavoro nel contagio da Covid inteso come “infortunio sul lavoro” (risolta in extremis con la previsione dell’esonero di responsabilità in caso di applicazione di tutti i protocolli previsti) oggi le aziende cercano risposte su come preparare la ripartenza, quando lo stato emergenziale finirà.
Una delle misure più importanti e discusse in materia di diritto del lavoro dipendente ai tempi della pandemia è stata l’introduzione del divieto di licenziamento individuale e collettivo.
Trattasi di una disciplina emergenziale, durante la quale la libertà di iniziativa economica privata viene inevitabilmente compromessa, al fine di preservare i posti di lavoro e di evitare che l’emergenza sanitaria in atto e la conseguente crisi economica possano imporre ai datori di lavoro di ridurre il personale in forza.
In appena otto mesi la fattispecie legale ha subito diverse modifiche, generando non pochi dubbi e perplessità.
Inizialmente vigeva un rigido divieto che non ammetteva – salvo rare eccezioni – deroghe di alcun tipo, tuttavia con le successive disposizioni sul tema hanno introdotto significativi temperamenti in modo da conciliare la straordinarietà della norma con la libertà di iniziativa economica privata, costituzionalmente garantita.
Procedendo con ordine.
Dcreto Cura Italia
Inizialmente, è stato l’art. 46 del D.L. n. 18/2020, c.d. Decreto Cura Italia, come integrato e modificato dall’art. 80 del Decreto Rilancio n. 34/2020, a disporre che a decorrere dal 17 marzo e fino al 17 agosto 2020 fosse vietato l’avvio delle procedure di licenziamento collettivo o avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020; allo stesso tempo è stato previsto il divieto di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo (G.M.O.).
Decreto Agosto
Con l’art. 14 del D.L. n. 104/2020, c.d. Decreto Agosto, il Legislatore ha prorogato il divieto di cui sopra a far data dal 15 agosto 2020 e ha previsto delle ipotesi di esonero dal divieto per alcuni datori.
In buona sostanza si è stabilito che a certe condizioni i datori di lavoro possano non rispettarlo. La disciplina fa dipendere la sussistenza del divieto dall’utilizzo che ha fatto l’azienda degli ammortizzatori, per cui se l’azienda ha integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili all’emergenza epidemiologica da Covid-19 è esonerata dal divieto. Allo stesso modo sarebbero esonerate anche le imprese che hanno integralmente fruito dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali (sgravio riconosciuto, per un massimo di 4 mesi, esclusivamente ai datori di lavoro che abbiano fruito di cassa integrazione a maggio e giugno 2020 ma che non abbiano fatto ricorso agli ammortizzatori ex Decreto Agosto).
Ciò significa che la data in cui viene meno il divieto di licenziamento non è uguale per tutti ma dipende dalla situazione in cui si trova ciascuna azienda.
Certo è che il termine ultimo del divieto – stando al testo del D.L. n. 104/2020 – è dato dal 31 dicembre 2020.
Quest’ultimo decreto ha introdotto un elenco di casistiche in cui il datore può legittimamente procedere con i recessi, indipendentemente dall’integrale fruizione dei trattamenti di integrazione salariale o dell’esonero contributivo. Per cui sono ammessi licenziamenti motivati:
- dalla cessazione definitiva dell’attività, con messa in liquidazione della società senza alcuna continuazione, anche parziale, dell’attività;
- dal fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione;
- da ipotesi di accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo;
Si tratta sempre di ipotesi circoscritte e tassative al di fuori delle quali permane il divieto di procedere a licenziamenti individuali e collettivi.
Decreto Ristori
Con il c.d. decreto Ristori, D.L. 137/2020, è stato prorogato al 31 gennaio 2021 il divieto di licenziamento sopra illustrato: tale data non è casuale in quanto coincidente con due eventi particolarmente rilevanti:
1. la fine dello stato di emergenza;
2. il termine entro cui sarà possibile fruire degli ulteriori ammortizzatori sociali previsti dallo stesso decreto Ristori.
Per quanto attiene alle deroghe al divieto di licenziamento, nulla è stato modificato rispetto alla previgente disciplina del Decreto Agosto.
Fatto questo brevissimo excursus sull’evoluzione del divieto di licenziamenti, si rileva che nonostante la ratio della norma fosse quella di “far sì che nessuno perda il proprio posto di lavoro”, così come pubblicamente dichiarato dal Ministro dell’Economia, tale disciplina si manifesta ricca di criticità anche in merito al vero e proprio dettame del disposto normativo.
Il giustificato motivo oggettivo è determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento della stessa. Queste ragioni sono garantite costituzionalmente (art. 41Cost.) come espressione di libertà di iniziativa economica ed imprenditoriale. L’intera previsione normativa introduce una forte limitazione alla suddetta libertà imprenditoriale, generando una grande sperequazione tra le imprese e i lavoratori e colpendo, senza alcun criterio di ragionevolezza, realtà strutturalmente differenti tra loro.
I diversi provvedimenti emanati hanno tamponato problematiche che sono state solo rimandate, con la conseguenza che le aziende, soprattutto di piccole dimensioni, si ritrovano con il rischio di non arrivare al momento in cui si potranno avviare i veri processi di riorganizzazione del personale.
Cosa succede in caso di violazione del divieto di licenziamento?
In caso di inosservanza, gli ispettori del lavoro possono emettere una disposizione, concedendo al datore di lavoro un termine per revocare il licenziamento. L’inottemperanza alla disposizione espone l’azienda all’applicazione di una sanzione compresa tra 500 e 3.000 euro.
Datore di lavoro e lavoratore possono comunque raggiungere un accordo finalizzato all’accettazione del provvedimento di licenziamento.
Lo stop ai recessi per giustificato motivo oggettivo riguarda anche i piccoli imprenditori, il provvedimento espulsivo comminato in violazione della norma è affetto da nullità, cosa che comporta, essendo una ipotesi prevista dalla legge, la reintegra del lavoratore nel suo posto di lavoro.
Il personale ispettivo degli I.T.L., avvalendosi, del potere discrezionale previsto dall’art. 14 del D.Lgs. n. 124/2004, come riformato dall’art. 12-bis del D.L. n. 104, può emettere una disposizione, concedendo al datore di lavoro un termine per revocare il provvedimento. Ovviamente, tale potere che, in caso di inottemperanza, comporta una sanzione compresa tra 500 e 3.000 euro, non diffidabile, va esercitato a fronte di un recesso che presenta le caratteristiche formali del giustificato motivo oggettivo, non spettando all’ispettore del lavoro il compito di discettare sulle motivazioni, magari ammantate da altri elementi, compito che spetta al giudice. Il potere discrezionale (che, come tale, non è obbligo) deve tener conto anche di una serie di circostanze successive come, ad esempio, il raggiungimento di un accordo “in sede protetta” o la rioccupazione del lavoratore;
Nell’ambito della riorganizzazione va fatta un ulteriore considerazione, a fronte di un licenziamento sia pure nullo le parti possono raggiungere un accordo, magari in “sede protetta” finalizzato alla accettazione del provvedimento di licenziamento come, del resto, ci ricorda l’art. 6, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015;
Il lavoratore, pur se licenziato per giustificato motivo oggettivo ha diritto alla indennità di disoccupazione (c.d. NASpI): l’INPS, con il messaggio n. 2261 del 1° giugno, emesso su parere conforme dell’Ufficio Legislativo del Ministero del Lavoro, la riconosce ma la condiziona al fatto che, in caso di ricostituzione del rapporto a seguito di sentenza o accordo extra-giudiziale, si riserva di ripetere le somme corrisposte.
Il Decreto c.d. Ristori ha previsto delle deroghe al divieto di licenziamento.
E’ possibile procedere ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo in caso di cessazione definitiva di attività, anche conseguente alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale della stessa e senza che si configuri nel corso della liquidazione la cessione di beni e servizi che possano configurare un trasferimento di azienda o di un ramo di essa ai sensi dell’art. 2112 c.c.. Questo significa che una cessazione parziale (ad esempio, la chiusura di uno o più negozi della “catena”) non abilita il datore a procedere ai recessi, e che, laddove si configuri, anche nel corso dell’attività liquidatoria, un passaggio di azienda, i licenziamenti non sono legittimi, attesa la tutela che per i lavoratori scaturisce dall’art. 2112 c.c..
I licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio e sia stata disposta la cessazione non ricadono sotto la “mannaia” del divieto. Se, invece, viene previsto l’esercizio provvisorio, il divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo continua a sussistere in favore dei lavoratori che continuano a prestare la propria attività.
Un ruolo fondamentale, nell’ottica di una riorganizzazione aziendale funzionale ad futura ripartenza (magari all’esito della pandemia) assumono gli accordi collettivi, sottoscritti con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Il Legislatore ha dato questa possibilità al datore di lavoro, consentendo, se necessario, l’apertura della procedura collettiva di riduzione di personale ex artt. 4, 5 e 24 della legge n. 223/1991. L’accordo va sottoscritto con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, relative a quel settore.
L’accordo non ha una natura strutturale, atteso che cessa di produrre effetti con la fine dello “stop” ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (al momento, 31 gennaio 2021).
Questo deve contenere i profili professionali ritenuti eccedentari, senza fare i nomi dei singoli lavoratori potenzialmente interessati, indicando, ai fini della appetibilità della scelta, gli incentivi all’esodo che possono ben essere diversificati in base all’anzianità aziendale, al ruolo ricoperto, ai carichi familiari e ad altre situazioni personali. Nel verbale andranno indicati anche i tempi entro i quali i lavoratori interessati debbono offrire la loro adesione all’accordo. La norma non fissa alcun termine ma appare opportuno che le parti lo prevedano e che indichino, altresì, la forma scritta per esprimere il consenso (cosa che la norma si è dimenticata di dire);
Il lavoratore che si dimette o risolve consensualmente il rapporto il rapporto ha diritto alla NASpI: si tratta di una deroga specifica alle previsioni del D.Lgs. n. 22/2015 e l’INPS, con la circolare n. 111/2020, ha chiarito che all’atto della presentazione della domanda di disoccupazione il lavoratore dovrà presentare copia dell’accordo e documentare la propria adesione allo stesso. La fruizione da parte dei lavoratori della indennità di disoccupazione comporta, poi, un altro onere per il datore di lavoro: dovrà pagare il contributo di ingresso alla NASpI che per un dipendente con un’anzianità pari o superiore a 36 mesi arriva, nel 2020, a 1.509,87 euro, pur se il rapporto a tempo indeterminato si è svolto a tempo parziale.
La norma non prevede un obbligo di deposito telematico dell’accordo ex art. 14 del D.Lgs. n. 151/2015, né il Ministero del Lavoro ha detto nulla in proposito, e, quindi, non va depositato.
La disposizione normativa non fa, neanche, riferimento alla necessità di riportare, con i singoli dipendenti, i contenuti in accordi individuali da firmare in “sede protetta” ex artt. 410 o 411 cpc. Tuttavia, oggettivamente, la via dell’accordo individuale in “sede protetta” appare la soluzione da preferire sia perché in quella sede si potranno chiudere una serie di questioni che afferiscono all’intercorso rapporto sia perché la sottoscrizione avanti a tali organi consente al lavoratore di “by-passare” la procedura telematica di conferma delle dimissioni o della risoluzione consensuale richiesta dall’art. 26 del D.L.vo n. 151/2015 e dal successivo D.M. applicativo del Ministro del Lavoro che, dal 15 novembre 2020, dovrà avvenire non più con il PIN INPS, ma con lo SPID unico elemento di identificazione, come ricorda la nota n. 2721 del 1° settembre u.s. del Ministero del Lavoro.