Brevi cenni sulla riparazione per ingiusta detenzione
BREVI CENNI SULLA RIPARAZIONE PER INGIUSTA DETENZIONE
(a cura dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura Italiana)
A differenza della riparazione pecuniaria dell’errore giudiziario, già prevista nel precedente ordinamento, la riparazione pecuniaria per ingiusta detenzione è stata introdotta dal nuovo codice di procedura penale approvato con D.P.R. 22 settembre 1988, n. 447, ed è regolamentata dagli artt.314 e 315, dello stesso codice.
L’introduzione di tale istituto rappresenta il riconoscimento, a livello normativo, del principio di civiltà giuridica e di attuazione dei valori di un ordinamento democratico in virtù del quale chi sia stato privato ingiustamente della libertà personale ha diritto ad una congrua riparazione per i danni morali e materiali patiti.
La dottrina italiana, infatti, si rese ben presto conto di quanto fosse grave il vuoto normativo, antecedente alla promulgazione del nuovo codice di procedura penale, in un sistema giuridico in cui la libertà personale è considerata un diritto primario ed inviolabile, così come previsto dall’articolo 24, comma 4, della Costituzione.
La Corte di Cassazione, tuttavia, ha escluso che la suddetta norma costituzionale possa essere considerata fonte normativa del diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione, poiché “la norma costituzionale limita la tutela del diritto….e rimette alla legge ordinaria non soltanto i modi della riparazione, ma anche le condizioni della riparazione stessa”.
A ciò si aggiunga che importanti trattati internazionali, come la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e il Patto internazionale sui diritti civili e politici, prevedono il diritto alla riparazione, ma si tratta, in realtà, di una previsione “generica”, alla quale può essere riconosciuto il valore di un impegno per gli Stati contraenti a darvi attuazione.
Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato come le norme internazionali, non contenendo ulteriori specificazioni circa la disciplina del diritto alla riparazione, “non si prestano ad un’applicazione immediata nell’ordinamento interno”.
Da quanto sin qui esposto, si può concludere che la fonte normativa della riparazione per l’ingiusta detenzione debba essere individuata negli articoli 314 e 315 del codice di procedura penale del 1988.
Il capo ottavo del libro quarto del Cpp, infatti, è testualmente intitolato alla “Riparazione per l’ingiusta detenzione”, con un’articolata disciplina dell’istituto, sia sotto i profili sostanziali, sia sotto quelli procedurali, sebbene, è opportuno evidenziarlo, il capo non si occupi dell’ingiusta carcerazione in senso ampio, ma solo dei provvedimenti cautelari restrittivi della libertà personale.
In materia rilevanti novità sono state apportate dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479, cosiddetta “Legge Carotti”, il cui articolo 15 ha apportato modifiche all’art.315 del codice di procedura penale.
In particolare, è aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un’ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire ad un miliardo, ed è altresì aumentato il termine ultimo per proporre, a pena di inammissibilità, domanda di riparazione: da 18 a 24 mesi.
Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che il cittadino che sia stato ingiustamente detenuto abbia un vero e proprio diritto soggettivo alla riparazione, ancorché soltanto “equa”.
Ciò rappresenta il superamento di quella ormai anacronistica concezione secondo la quale nei confronti dello Stato che, in seguito all’accertamento di un errore giudiziario poteva venire in soccorso della vittima, il cittadino vantava semplicemente un interesse legittimo, se non addirittura una legittimazione a richiedere.
Qualificato, quindi, il diritto alla riparazione quale diritto soggettivo di ordine pubblicistico, lo Stato ha l’obbligo di pagare una somma di denaro qualora sia definitivamente riconosciuta la fondatezza della domanda volta ad ottenere una equa riparazione.
La giurisprudenza ritiene che in tali casi le parti, cittadino e Stato, danno vita ad un rapporto obbligatorio definibile “obbligazione pubblica” o di “diritto pubblico”.
Occorre ricordare che nelle ipotesi disciplinate dalla normativa sulla responsabilità civile del magistrato (legge 13 aprile 1988, n. 117), il comportamento commissivo od omissivo, l’atto o il provvedimento, in base ai principi di cui all’art.2043 del codice civile, devono aver cagionato un danno ingiusto, ossia devono costituire un fatto illecito.
Proprio questo aspetto rappresenta l’elemento distintivo di fondo tra fatto dal quale deriva la responsabilità personale del magistrato, con conseguente diritto al risarcimento del danno, ed atto illegittimo, dal quale derivi la privazione della libertà personale, che determinerà l’indennizzo per l’ingiusta detenzione, ai sensi degli artt.314 e 315 del codice di procedura penale.
Nel primo caso l’atto giudiziario, per sua natura conforme a legge, regredisce a mero atto umano, con la conseguenza che la sua illiceità sarà riferibile alla sfera volitiva del soggetto agente; in altre parole dovrà farsi riferimento al dolo o alla colpa grave del responsabile.
Nel secondo caso, invece, poiché si presume che l’attività dello Stato, attraverso i suoi organi giurisdizionali, sia sempre e comunque lecita, l’atto giudiziario restrittivo della libertà personale rileverà solo sotto il profilo della mera illegittimità, con il conseguente diritto all’equo indennizzo con le procedure ed i limiti di cui agli artt.314 e 315 del codice di procedura penale.
Peraltro, alla luce della normativa vigente, si ritiene che l’azione risarcitoria, derivante dalla legge 117/1988, e l’azione riparatoria, ai sensi degli artt.314 e 315 del codice di procedura penale, siano compatibili e cumulabili.
L’art.14 della legge 117/1988, infatti, dispone testualmente che “le disposizioni della presente legge non pregiudicano il diritto alla riparazione alle vittime di errori giudiziari e di ingiusta detenzione”.
I casi previsti dalla suddetta legge per i quali è ipotizzabile la cumulabilità delle due azioni sono riconducibili a quelli previsti dagli articoli 2, comma 3, lettera d), e 3, comma 3.
La prima ipotesi (art.2, comma 3, lett. D) sanziona la responsabilità del magistrato, nel caso di “emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione”.
Tale disposizione va correlata con i commi 2 e 3 dell’art.314 del Cpp. con la conseguenza che saranno esperibili entrambe le azioni qualora l’adozione del provvedimento restrittivo della libertà personale, in violazione delle condizioni di applicabilità previste dagli articoli 273 e/o 280 del Cpp, sia il frutto non di un mero errore o della cattiva interpretazione della legge, ma piuttosto della negligenza, imperizia o del dolo dell’autorità giudiziaria.
La seconda ipotesi (articolo 3, comma 3), relativa ai casi di denegata giustizia, riconosce la responsabilità del giudice “quando l’omissione o il ritardo senza giustificato motivo concernono la libertà personale dell’imputato…”
Con riferimento a quest’ultima ipotesi, nonostante il venir meno del presupposto di cui all’art.280 del codice di procedura penale, il mantenimento della misura restrittiva determinerà l’insorgere del diritto alla riparazione, mentre l’azione di responsabilità per fatto illecito potrà essere esperita solo se l’omessa o ritardata eliminazione della misura non siano determinate da “giustificato motivo”.
Tuttavia, come è stato rilevato da accorta dottrina, né la normativa speciale, né il codice prevedono, nel caso di cumulabilità delle due azioni, norme di coordinamento delle due discipline.
A ciò si aggiunga che il riconosciuto carattere misto, patrimoniale e non, dell’indennizzo spettante al cittadino che abbia subito un’ingiusta custodia cautelare, così come delineato dalla giurisprudenza, unito ai criteri di liquidazione del danno per fatto illecito, potrebbe comportare, in caso di cumulabilità delle azioni, un duplice riconoscimento dello stesso nocumento a carico dello Stato.
A tale proposito, particolarmente utile appare la soluzione già prospettata dal disegno di legge Vassalli secondo la quale la domanda di risarcimento dovrebbe sospendere il termine di proposizione dell’azione riparatoria o, qualora questa fosse già stata proposta, bloccare il procedimento.
In questo modo il riconoscimento parziale del risarcimento lascerebbe utilmente esperibile l’azione riparatoria per il residuo.
Ma vediamo adesso chi ha diritto alla riparazione per ingiusta detenzione:
- Chi è stato sottoposto a custodia cautelare e, successivamente, è stato prosciolto, con sentenza irrevocabile, perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, se non ha dato causa o non ha concorso a darvi causa per dolo o per colpa grave;
- Chi è stato sottoposto a custodia cautelare e, successivamente, è stato prosciolto per qualsiasi causa quando con decisione irrevocabile risulti accertato che il provvedimento di custodia cautelare è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt.273 e 280 del codice di procedura penale;
- Chi è stato condannato e nel corso del processo sia stato sottoposto a custodia cautelare quando, con decisione irrevocabile, risulti accertato che il provvedimento di custodia cautelare è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt.273 e 280 del codice di procedura penale;
- Chi è stato sottoposto a custodia cautelare e, successivamente, a suo favore sia stato pronunciato un provvedimento di archiviazione o una sentenza di non luogo a procedere;
- Chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, per la detenzione subita a causa di arresto in flagranza o di fermo di indiziato di delitto, entro gli stessi limiti stabiliti per la custodia cautelare;
- Chi è stato prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che nel corso del processo sia stato sottoposto ad arresto in flagranza o a fermo di indiziato di delitto quando, con decisione irrevocabile, siano risultate insussistenti le condizioni per la convalida;
e, in caso di suo decesso
- Il coniuge, i discendenti e gli ascendenti, i fratelli e le sorelle, gli affini entro il primo grado e le persone legate da vincolo di adozione con quella deceduta.
Il comma 4 dell’articolo 314 del Cpp esclude il diritto alla riparazione per quella parte della custodia cautelare che, ai sensi dell’articolo 657 del Cpp, sia computata ai fini della determinazione della misura di una pena da espiare, nonché relativamente al periodo di custodia cautelare sofferta in forza di altro titolo.
Una ipotesi particolare è regolata dal comma 5 dell’art.314 del Cpp: in presenza di una sentenza o un decreto di archiviazione che affermano che il fatto non costituisce reato in quanto abrogato, il diritto al ristoro non è configurabile per quella parte di custodia cautelare sofferta prima dell’abrogazione medesima.
Altri casi di esclusione risultano da alcune pronunce della Suprema Corte.
Così con la sentenza del 1° luglio 1992 la Corte di Cassazione ha escluso il diritto alla riparazione qualora sia stata adottata una formula diversa da quelle tassativamente indicate dall’art.314, commi 1 e 2 del Cpp, come ad esempio nel caso di estinzione del reato per prescrizione o per amnistia.
Tale diritto è stato escluso anche nel caso in cui il procedimento si sia concluso con l’applicazione di una formula non di merito ( nel caso di specie, per difetto di querela) “venendo a mancare la declaratoria giurisdizionale sull’ingiustizia della detenzione, condizione imprenscindibile per il riconoscimento del diritto all’indennizzo”.
La Suprema Corte, inoltre, nella sentenza 22 maggio 1996 ha stabilito che “non rientra tra i presupposti genetici del diritto alla riparazione il caso in cui taluno legittimamente detenuto in espiazione di pena, soffra di ulteriore limitazione della libertà a causa di ritardi nella procedura di applicazione di un decreto di indulto”.
La domanda di riparazione deve essere presentata – a pena di inammissibilità – entro due anni dal giorno in cui la sentenza di proscioglimento o di condanna è divenuta irrevocabile, la sentenza di non luogo a procedere è divenuta inoppugnabile o il provvedimento di archiviazione è stato notificato alla persona nei cui confronti è stato pronunciato.
La domanda deve essere presentata, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, presso la Cancelleria della Corte d’Appello del distretto giudiziario in cui è stata pronunciata la sentenza o il provvedimento di archiviazione che ha definito il procedimento.
Se la sentenza è stata emessa dalla Corte di Cassazione, la domanda deve essere proposta presso la Cancelleria della Corte d’Appello nel cui distretto è stato emesso il provvedimento impugnato.
Secondo un costante orientamento della giurisprudenza di merito e di legittimità, le norme di cui agli artt.314 e 315 del Cpp non trovano applicazione rispetto alle “ingiuste” detenzioni verificatesi nell’ambito di un rapporto processuale esauritosi prima del 24 ottobre 1989, essendo stato ritenuto operante, al riguardo, il principio di irretroattività.
la Procura generale presso la Corte di Cassazione, richiamando i precedenti giurisprudenziali della sezione Lavoro (sentenza 2 settembre 1998) e della prima sezione civile (sentenza 7 marzo 1998 n. 2542), ritiene invece opportuna l’applicazione della nuova legge ai rapporti pendenti – in sede di legittimità – alla data della sua entrata in vigore, a condizione che tra i motivi di impugnazione dell’ordinanza decisoria in materia di equa riparazione, il ricorrente abbia comunque censurato i vizi concernenti la determinazione del quantum.
Occorre sottolineare, tuttavia, che l’eventuale accoglimento di questo nuovo orientamento della Procura generale presso la Cassazione verrebbe sicuramente ad influire sulle decisioni di merito.
Il Servizio centrale per gli Affari Generali e la qualità dei processi e dell’organizzazione del Ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica è l’unico ufficio competente – su tutto il territorio nazionale – ad autorizzare il pagamento della riparazione pecuniaria per ingiusta detenzione (ma anche per errore giudiziario).
In particolare, per autorizzare il pagamento della riparazione pecuniaria per ingiusta detenzione è necessario che l’ufficio acquisisca:
- Copia autentica dell’ordinanza che liquida l’indennizzo per l’ingiusta detenzione, rilasciata dalla competente Cancelleria di Corte d’Appello;
- Parere favorevole all’esecuzione (in originale o copia autentica) della competente Avvocatura dello Stato (non necessario in caso di produzione di copia autentica dell’ordinanza attestante, in calce, l’avvenuto passaggio in giudicato);
- Fotocopia di un documento di identità del creditore in corso di validità.
La copia dell’ordinanza ed il parere dell’Avvocatura sono acquisiti d’ufficio al procedimento.
Si ricordi che il regolamento di attuazione della legge n.241/1990 per il Ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica (adottato con D.M. 5 agosto 1997, n. 325) ha fissato il termine massimo di definizione del procedimento di autorizzazione in 180 giorni oltre l’ulteriore termine di 60 giorni fissato per l’emissione del relativo ordine di pagamento.
Il termine di 180 giorni decorre dal momento in cui l’ufficio riceve, dall’Avvocatura dello Stato competente, la copia dell’ordinanza della Corte d’Appello notificata al Ministero del Tesoro, del Bilancio e della P.E. divenuta esecutiva o con parere favorevole all’esecuzione.
Concludiamo ricordando che la riparazione, non avendo carattere risarcitorio ma di indennizzo, deve essere determinata dal giudice in via equitativa.
Il giudice dovrà tenere conto delle conseguenze di carattere morale e psicologico derivate dalla detenzione, in considerazione del fatto che esse rientrano tra le “conseguenze personali e familiari” indicate dall’articolo 643, comma 1 del codice di procedura penale, richiamato dall’art.315. comma 3, dello stesso codice.
Il giudizio di equità, pertanto, potrà avere solo il limite interno della ragionevolezza e quello esterno della congrua motivazione, dovendo il quantum dell’indennizzo per l’ingiusta detenzione essere determinato senza riferimento a termini o valori meramente aritmetici, ma attraverso un prudente e globale apprezzamento della situazione dedotta, nell’ambito discrezionale che può e deve essere il più ampio possibile.