Il condominio negli edifici
Il codice civile disciplina l’istituto giuridico del condominio nell’ambito “Della comunione” e “Della Proprietà”, ma, come noto, non ne dà una definizione.
Ed invero, il condominio è una forma di comunione che si caratterizza per la compresenza di parti di proprietà esclusiva e parti di proprietà comune; più in particolare, i titolari in via esclusiva della proprietà delle unità immobiliari facenti parte di un edificio, sono, altresì, proprietari in comunione tra di loro delle parti comuni insistenti sullo stesso.
Ebbene, la contitolarità sui predetti beni implica la necessità di una gestione comune, che prescinde dai singoli interessi e che deve avvenire secondo i principi sanciti dal codice civile.
La legge 11 dicembre 2012 n. 220 ha apportato considerevoli modifiche alle norme codicistiche, recependo, altresì, molti degli arresti giurisprudenziali degli ultimi anni.
Le parti comuni alla luce della riforma del 2012
Si deve, invero, al predetto intervento normativo la definizione di “parti comuni”, di cui all’art. 1117 c.c. modificato, laddove le prevede quali “oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, anche se aventi diritto a godimento periodico”.
Ancora, la norma come modificata ha introdotto ulteriori beni da annoverare tra le parti comuni, quali, ad esempio, i pilastri, le facciate, i sottotetti, i parcheggi, nonché gli impianti idrici e fognari.
Il legislatore, quindi, ha focalizzato la sua attenzione sulla comunione forzosa che caratterizza il condominio, specificandone l’oggetto, ma anche intervenendo sulle modalità di esercizio della stessa.
Quanto detto trova conferma, altresì, anche in altre norme concernenti la gestione delle parti comuni, quali:
- l’art. 1117 quater c.c. che conferisce all’amministratore o ai condomini, il potere di diffidare chi ponga in essere “delle attività che incidono negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d’uso delle parti comuni”, nonché convocare l’assemblea per fare cessare la violazione;
- l’art. 1119 c.c. che nella precedente formulazione consentiva la divisione delle parti comuni se la stessa avveniva senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino, mentre in quella attuale richiede anche il consenso di tutti i condomini.
- l’art. 1122 c.c. che, a seguito della novella, pone non solo il divieto per il condomino di eseguire opere che rechino danno alle parti comuni, ma anche quelle che rechino pregiudizio alla stabilità, sicurezza e al decoro architettonico dell’edificio.
Il supercondominio e il condominio minimo
La riforma ha, altresì, chiarito che l’applicazione della normativa in materia condominiale non riguarda soltanto il caso in cui più unità immobiliari presentino le predette parti comuni, ma anche quello in cui “più edifici ovvero più condominii di unità immobiliare o di edifici abbiano parti comuni ai sensi dell’art. 1117 c.c.”
È stata, in definitiva, riconosciuta la figura del supercondominio, di creazione giurisprudenziale, che aveva posto l’annosa questione dell’applicabilità alla stessa dei principi della gestione condominiale o della comunione ordinaria.
Il legislatore ha recepito l’orientamento giurisprudenziale maggioritario secondo cui deve trovare applicazione la disciplina speciale del condominio, in quanto la peculiarità del supercondominio è proprio la sussistenza di un nesso di strumentalità accessoria e funzionale tra le parti comuni dell’intera struttura residenziale in cui insistono i singoli edifici e gli edifici stessi.
La sussistenza di un siffatto nesso tra parti comuni ed esclusive, a prescindere che queste siano singole unità immobiliari o interi edifici, vale quindi a connotare la fattispecie del condominio.
Sulla scorta di tale principio, la giurisprudenza ha riconosciuto la presenza di un condominio minimo, anche in presenza di due soli proprietari.
Anche in questo caso, infatti, la presenza di parti comuni accessorie rispetto alle singole unità abitative determina l’applicazione dei principi in materia condominiale, e non anche della comunione ordinaria.
Non si tratta di una questione meramente teorica, in quanto l’accoglimento di una tesi piuttosto che di un’altra reca delle concrete conseguenze sul piano applicativo della gestione.
Si consideri, in proposito, l’ipotesi in cui uno dei due condomini anticipi delle spese per la conservazione delle parti comuni: secondo quanto previsto dalla norma sulla comunione ex art. 1110 c.c., il diritto al rimborso della spesa sussisterebbe laddove la stessa fosse stata necessaria al fine del mantenimento del bene comune e il comproprietario fosse rimasto inerte per mera negligenza; la norma relativa alla gestione condominiale ex art. 1134 c.c., invece, richiede il requisito dell’urgenza della spesa.
Nel condominio, quindi, l’iniziativa del singolo condomino è molto più contenuta e limitata, in quanto la gestione comune compete all’organo decisorio preposto, quale l’assemblea, rappresentativa di una volontà collegiale anche se in presenza di due soli condomini.
L’obbligo della nomina dell’amministratore
Se già la presenza di due unità immobiliari, e quindi di due condomini, determina la costituzione del condominio, la necessità della nomina di un amministratore, che eserciti la gestione concernente le parti comuni, deriva dalla presenza di più di otto condomini.
Anche su questo punto si riscontra una modifica introdotta dalla riforma del 2012, prevedendo la disciplina precedente l’obbligo in presenza di più di quattro condomini.
Secondo quanto previsto dall’art. 1129 c.c., l’assemblea deve nominare l’amministratore, il cui incarico ha durata annuale; diversamente, anche su iniziativa di un singolo condomino, si può ottenere la nomina giudiziale dello stesso.
Ma quale è la funzione in concreto dell’amministratore?
Per come si evince dal comma 15 dell’art. 1129 c.c. il rapporto tra amministratore e i condomini è riconducibile a quello del mandato con rappresentanza, nell’esercizio del quale egli svolge sia funzioni gestionali, sia amministrative, sia esecutive. Il tutto nell’interesse dei condomini.
Più in particolare, tra le attribuzioni principali previste dal codice civile., egli deve:
- eseguire le delibere assembleari, convocare annualmente l’assemblea per l’approvazione del rendiconto condominiale e occuparsi dell’osservanza del rispetto del regolamento;
- disciplinare l’uso delle cose comuni e la fruizione dei servizi nell’interesse comune;
- riscuotere i contributi ed erogare le spese necessarie per la manutenzione ordinaria delle parti comuni;
- compiere atti conservativi a tutela delle parti comuni;
- adempiere agli obblighi fiscali;
- curare la tenuta dei registri contabili e di tutta documentazione amministrativa, che deve essere accessibile ai condomini;
- rappresentare in giudizio i condomini.
L’amministratore deve adempiere agli obblighi derivanti dal conferimento del mandato con la diligenza professionale richiesta (di qui anche l’introduzione dell’obbligo della frequentazione di un corso di formazione professionale e di corsi di aggiornamento professionali), in violazione della quale può essere revocato. L’assemblea, infatti, lo può revocare in ogni momento, laddove ritenga essere venuto meno il rapporto fiduciario, deliberando con le stesse maggioranze previste per la nomina (l’art. 1136 c.c. richiede un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e lamentano la metà del valore degli edifici).
È, infine, prevista anche la revoca giudiziale dell’amministratore, su ricorso anche di un solo condomino, nel caso di violazione dell’obbligo di informare l’assemblea della notifica di citazione o comunque di provvedimenti concernenti materia esorbitante dalle sue attribuzioni (art. 1131. comma 4, c.c.), nel caso di mancata presentazione del rendiconto di gestione e in caso di grave irregolarità.
La soggettività giuridica del Condominio: verso un graduale riconoscimento della personalità giuridica?
Sebbene l’introduzione della riforma del 2012 abbia reso la disciplina in materia condominiale più completa e organica, il legislatore ha disatteso le aspettative degli operatori del diritto, non avendo ancora una volta previsto nulla in merito al riconoscimento della soggettività con personalità giuridica in capo al condominio.
Invero, la questione è da sempre oggetto di attenzione giurisprudenziale.
Più in particolare, la giurisprudenza da un lato ha riconosciuto il condominio come ente di gestione, in quanto soggetto che può svolgere autonomamente delle attività concernenti sempre le parti comuni; dall’altro, però, non gli ha mai riconosciuto una personalità giuridica.
Secondo i tradizionali principi affermati dalla Suprema Corte, quindi, il condominio non ha un’autonomia patrimoniale perfetta o una legittimazione processuale propria, distinta da quella dei singoli condomini.
Tuttavia, va evidenziato come, seppure limitatamente a singole ipotesi, la più recente giurisprudenza sembrerebbe avere disatteso i tradizionali principi.
Il riferimento è alla sentenza n. 19663 del 19 settembre 2014, con la quale la Cassazione ha riconosciuto esclusivamente all’amministratore – previa delibera assembleare di autorizzazione – il potere di agire in giudizio, per il risarcimento del pregiudizio derivante dalla violazione del principio della ragionevole durata del processo, e non anche al singolo condomino che non abbia preso parte al giudizio in cui si è manifestata la violazione. I giudici sono giunti a tale conclusione, quindi, ritenendo che la titolarità del diritto controverso nel giudizio che abbia avuto irragionevole durata non è sufficiente per fondare la pretesa risarcitoria, essendo invece necessaria la partecipazione allo stesso da parte del soggetto asseritamente leso.
Appare evidente che alla base di tale decisione, vi è il principio secondo cui il singolo condomino non possa ritenersi rappresentato nel giudizio controverso, nonostante la costituzione in giudizio dell’amministratore.
Sembra, pertanto, che sebbene la giurisprudenza, e men che meno il legislatore, si siano ancora spinti a riconoscere la piena personalità giuridica del condominio, poi a seconda della fattispecie esaminata, lo consideri come un vero e proprio soggetto distinto dai singoli condomini, e non anche come insieme degli stessi
A ulteriore conferma di quanto sopra detto si consideri ad esempio anche il settore tributario, in cui il condominio è riconosciuto come soggetto passivo fiscale.
Non è da escludere, pertanto, un intervento sul punto da parte del legislatore, che possa innovare definitivamente sul punto esaminato.
Il Condominio e le fonti rinnovabili secondo la normativa ex art. 1122 bis c.c.
Un altro interessante aspetto preso in considerazione dal legislatore della riforma attiene all’impiego dell’energia rinnovabile, in linea con quello che è il trend normativo anche a livello europeo, sempre più sensibile alla tematica dell’energia green.
Ed invero, l’art. 1122 bis, comma 2, c.c. prevede che
“è consentita l’installazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili destinati al servizio di singole unità del condominio sul lastrico solare, su ogni altra idonea superficie comune e sulle parti di proprietà individuale dell’interessato.”.
Si autorizza, dunque, l’installazione anche su parti di proprietà comune, senza previa autorizzazione degli altri condomini.
Ad ogni modo, in un contemperamento degli interessi di tutti i condomini, qualora sia necessario modificare le predette parti comuni, la legge prevede l’obbligo di dare comunicazione all’amministratore in ordine al tipo di intervento e delle modalità di esecuzione dello stesso. L’assemblea, ad ogni modo, non può opporsi all’installazione, ma può, con apposita delibera assembleare (adottata con una maggioranza di condomini che rappresentino i 2/3 dell’edifico), prescrivere della modalità alternative dell’intervento o imporre delle cautele, a tutela della sicurezza e del decoro architettonico dell’edifico.
L’autoconsumo collettivo e le comunità energetiche
Nell’ambito del trend normativo volto a potenziare e favorire la creazione di un sistema energetico alternativo, fondato su fonti rinnovabili, si pone il decreto legge Milleproroghe (D.L. 162/2019), e i successivi provvedimenti attuativi (determinazione ARERA 318/2020 e Decreto Mise 16/09/2000).
Invero, il legislatore nazionale ha recepito la direttiva 2018/2001 che ha introdotto un sistema di autoproduzione e condivisione dell’energia. Più in particolare, sono state previste due modalità di attuazione di siffatto sistema: l’autoconsumo collettivo e le comunità energetiche.
Secondo la definizione della direttiva si ha autoconsumo collettivo quando:
“gli autoconsumatori di energia rinnovabile che agiscono collettivamente sono un gruppo di almeno due autoconsumatori che si trovano nello stesso edificio o condominio che intendono produrre energia elettrica rinnovabile per il proprio consumo e accumulare o vendere energia elettrica rinnovabile autoprodotta in rete, purché tali attività non costituiscano l’attività commerciale o professionale principale.”.
Come si evince dalla definizione normativa, l’autoconsumo si attaglia alla realtà condominiale con delle significative novità rispetto al passato.
A differenza di quanto previsto dalla disciplina codicistica, infatti, adesso è possibile installare un impianto fotovoltaico a uso comune non solo per l’alimentazione energetica degli spazi condominiali, ma anche delle utenze individuali.
I vantaggi connessi a tale sistema sono molteplici: i condomini possono avvalersi di un impianto che produce l’energia da consumare (quindi sono contemporaneamente produttori e consumatori), abbattendo gli oneri di sistema, e possono, altresì, immettere nella rete elettrica l’energia accumulata e non impiegata, con ritorno economico. A ciò si aggiunge l’incentivo previsto per la durata di ben 20 anni, di importo pari a € 100,00 per ogni MWh, nonché la possibilità di avvalersi anche dell’agevolazione fiscale per la realizzazione dell’impianto fotovoltaico.
In parte differente, invece, è il meccanismo produttivo di energia della comunità energetica.
Esse differiscono dall’autoconsumo collettivo, in quanto gli autoconsumatori non sono localizzati nello stesso edificio: si tratta, infatti, di un insieme di soggetti privati, quali cittadini, piccole o medie imprese, enti locali o territoriali che si associano per condividere la produzione di energia.
Tuttavia, è previsto un limite per le imprese, che possono aggregarsi, purché la produzione e scambio di energia elettrica non sia l’attività principale,
Con riferimento al condominio, la comunità energetica può anche trovare attuazione, laddove i condomini decidessero di non limitare l’autoproduzione e l’autoconsumo al singolo edificio.
Indubbiamente, va riconosciuta la grande potenzialità di siffatti sistemi di produzione energetica, sia in termini di tutela ambientale, che di risparmio economico, soprattutto alla luce dell’attuale crisi economica dovuta all’esponenziale incremento delle tariffe del mercato energetico tradizionale.
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